Voltare lo Sguardo: una riflessione sulla realtà della violenza di genere

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Voltare lo Sguardo: una riflessione sulla realtà della violenza di genere

Mentre scrivo questo pezzo gli avvenimenti sociali e privati si accavallano.

Il corpo di Giulia Cecchettin è stato ritrovato privo di vita, come tutti noi temevamo, abbandonando nel popolo italiano la prospettiva di ogni speranza verso un finale che potesse essere scritto diversamente, almeno questa volta.

Come donna sono chiamata in prima linea ad avere un’opinione, come scrittrice ho in egual misura diritto e dovere ad avere una voce davanti a tali eventi e poi c’è il sentimento, sotto forma di dolore e paura che appartiene a chi non solo analizza le situazioni dall’esterno, ma sa benissimo quali siano i meccanismi che portano ad uccidere una donna, a violentarla, a proibirle di esistere.

La violenza di genere aumenta di anno in anno, un fenomeno che nonostante lo sgomento collettivo sembra non avere freno, ma anzi la deliberazione di possessione verso le donne pare sempre più consentito.

Spesso si parla di delitti passionali, ma lo stupro non ha mai a che fare con il sesso, è il concetto di possesso e gelosia a fare da perno alle tragedie che vedono esposte le donne ad una cultura non solo maschilista, ma anche generalista.

Mentre la redazione ci chiedeva una riflessione in prospettiva del 25 Novembre,  Giornata Internazionale contro violenza di genere, io ho iniziato a riflettere fra le mura di casa, in mezzo agli amici e fra gli schermi social, per chiederci insieme non solo come sia possibile che accada, ma anche da cosa nasca tutto questo e come sia possibile non tanto fermarlo ma quanto più sradicarlo.

A volte in me prevale il silenzio, quella netta sensazione che spesso dare o avere voce sia un’azione altrettanto dannosa. Il fatto che tutti oggi possano esprimersi espone i fatti di cronaca, i crimini e le persone su una lente di ingrandimento enorme e globale, non filtrando nemmeno più quelli che potrebbero essere gli istinti e i pensieri maggiormente primordiali.

La violenza chiama violenza

Chi non ha pensato, almeno una volta, davanti ai crimini più feroci, di riservare ai carnefici ciò che viene fatte alle vittime?

Capita, è un innesto naturale perché di fatto il male è in noi, il male ci appartiene.
Ma non a tutte le cose che ci appartengono noi dedichiamo cura e decidiamo di appartenere.

C’è gente che il male se lo culla dentro, come se lo educasse a restare assonnato per un po’ di tempo, uscire piano piano e agire lentamente, come un veleno.

I raptus, come lo stesso Crepet ha recentemente detto, non sono fulminei, qualcosa latita in noi da tempo e se non lo si addomestica, se lo si lascia libero e allo stato brado, finisce per toglierla poi agli altri quella stessa libertà.

Per questo chi crede di averlo addomesticato dentro di sé è pronto a giudicare ogni evento di una storia.

Però se l’è cercata.
Però poteva non andare all’ultimo appuntamento.
Perché non ha chiuso prima?
Perché non ha scelto di meglio?
Non soffre abbastanza.
Soffre troppo.
È un bravo ragazzo.
Nessuno lo avrebbe mai detto.
Io però avrei fatto diversamente.

Sono solo alcune delle frasi che alleggiano nelle opinioni popolari quando un crimine violento irrompe nella nostra apparente normalità.
Si attaccano alla vittima, la quale nonostante la tristezza e il cordoglio, viene soffocata dai se e dai ma, come se anche solo un atteggiamento diverso l’avesse salvata.
Si attaccano sui carnefici, sui mostri che poi sono sempre quei bravi ragazzi, troppo normali, troppo bianchi, troppo per bene per essere mostri da prima pagina.

L’avvocato di Turetta ha detto che Filippo l’amava Giulia, le preparava i biscotti.

Non è una scusante, ma ciò che deve essere capito più di tutto è che i biscotti possono essere, molto comodamente, la rappresentazione ideale per fare del male.
Ti coccolo affinché tu ti senta al sicuro, ti coccolo affinché tu sia un mio prodotto e si faccia il percorso che io ho stabilito per entrambi, affinché tu sia un’estensione della mia visione di amore, che ben poco ha a che fare con il reale sentimento.

Le trappole del perbenismo sentimentale sono queste.
I mostri sono persone reali, si annidano nel nostro quotidiano perché così possono annullarci.
E noi, opinionisti di vita comune, condanniamo fin troppo facilmente i cliché criminali.

Finché parliamo di mostri e bravi ragazzi, il concetto di educazione difettosa rimane in noi e ci pervade, siamo donne destinate ad essere vittime perché anche condannate ad essere a nostra volta carnefici.

Chi li ha messi al mondo quei mostri e quei bravi ragazzi?
I genitori e quindi anche le madri, le donne.

Non necessariamente chi ha un figlio criminale lo è a sua volta e viceversa.
Esiste però indubbiamente una connessione difficile nel rapporto uomo-donna anche quando questo è simboleggiato dal duo madre-figlio, padre-figlia.

Noi donne, anche e soprattutto involontariamente, continuiamo a sentirci addosso il fardello dell’essere inferiori, di non essere mai abbastanza degne e libere quanto un uomo ha diritto di esserlo.
Come se temessimo sempre questa figura patriarcale e credenziale, a cui dovremmo essere grate senza alcune condizioni di causa.
Questa antica rappresentanza ci schiaccia, anche quando non ci rappresenta, anche quando con una forza estrema, reggiamo il peso sociale di molti ambiti.

E nei nostri discorsi post crimini non facciamo che aumentare questo senso di fallimento e di  inferiorità, aumentiamo il dubbio dei se, che se la vittima avesse fatto qualcosa di diverso sarebbe ancora viva, non avrebbe attirato verso di sé il male.

E in un mondo sempre più permissivo, dove i NO vengono detti sempre meno, il concetto di possesso lecito si fa strada nella nostra cultura e nella nostra società.

Siamo incapaci di dirli i NO, perché non vogliamo far soffrire o perché spesso a dirli non bastano e abbiamo paura delle reazioni che ne scaturiscono.
E siamo incapaci di sentirceli dire i NO, ci sentiamo subito dilaniati dal rifiuto, offesi ed impreparati a qualcosa che siamo sempre meno abituati a vivere, ovvero che non tutto ci sia concesso.

Comunichiamo a qualsiasi ora del giorno e della notte, con qualsiasi mezzo, ci esponiamo pubblicamente, non esistono regole di buon costume o famiglie che abbiamo, almeno apparentemente, quel minimo senso autoritario, le case sono aperte a tutti, si dorme insieme a qualsiasi età, già a vent’anni da appena conosciuti si pensa a un futuro totalmente insieme, si convive, ma siamo anche in contrapposto fluidi e slegati, la generazione del senza impegno.
Siamo grandi senza esserlo, giochiamo con i lego buttandoci dentro esistenze impreparate ad essere adulte.
Lo stupro o la violenza hanno ben poco a che fare con il sesso e la passione o con il gesto istintivo di tenere a noi qualcuno che pensiamo di amare.

La violenza ci uccide ancora prima del delitto, ci annulla, ci priva della nostra identità.
Noi non siamo nulla.
Siamo solo una funzione, un’opzione in aggiunta alla vita dell’uomo.

Ecco perché la gelosia non incorre solo perché ci può essere qualcun altro accanto a noi, ma anche e soprattutto perché chi violentiamo sembra capace più di noi a vivere e stare bene.
Invidiamo la sua capacità di andare avanti, il suo benessere, quell’equilibrio che vogliamo sottrargli ad ogni costo.
Ti piace qualcosa?
Te lo tolgo.
Così come ogni tua passione diventa inutile, va eliminata.
Non puoi essere più brava di me, nello studio o nel lavoro.
Questa è la forma di gelosia più pericolosa e più sottile.

E quando, commentando ciò che accade, diciamo che non è possibile, che sono bravi ragazzi o improvvisi mostri, noi permettiamo a chi subisce violenza di non essere creduta o screditata solo perché ha permesso alla propria normalità di arrivare vicino fino a farle male, dagli sconosciuti scappiamo tutti, ma come si scappa dal proprio quotidiano?

 

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