Donne coraggioseHome » Donne » Donne coraggiose » La Lauretta: dalla scrittura, alla resilienza, al coraggio di essere se stessa La Lauretta: dalla scrittura, alla resilienza, al coraggio di essere se stessa Da Rossana Nardacci Pubblicato 7 minuti fa21 min lettura 0 4 Laura Mandaradoni, in arte LaLauretta, trasforma la fragilità in forza, la disabilità in creatività, e le cicatrici in colori. Blogger e mamma, La Lauretta ha fatto della sua storia un manifesto di resilienza ed ironia. Per ModApp, l’abbiamo intervistata non solo per il suo talento, ma per il messaggio potente che incarna: essere donna significa anche rompere gli schemi, con un sorriso. Disabilità e rappresentazione Parliamo di ipoplasia femorale congenita: quanto è importante per te far conoscere questa condizione? E come possiamo, come società, migliorare la rappresentazione delle donne con disabilità nell’arte e nei media? L’ipoplasia femorale congenita è una condizione rara che colpisce lo sviluppo del femore nei neonati ed è solo una delle patologie curate grazie al trattamento di Ilizarov. Ed è proprio della metodica di Ilizarov che desidero parlare. Ti spiego di cosa si tratta come se ne stessimo parlando davanti ad un caffè. Il metodo Ilizarov è una tecnica inventata da un medico russo, Gavriil Ilizarov, che ha trovato un modo per “allungare le ossa” o correggerle quando sono storte o danneggiate. Lo ha fatto creando questo apparecchio speciale fatto di anelli di metallo collegati da fili e barre. Un po’ come una “gabbia” esterna attorno all’osso. Funziona così: questo apparecchio tiene fermo l’osso, ma allo stesso tempo lo “spinge” piano piano a rigenerarsi. L’osso si rompe chirurgicamente in un punto ben preciso deciso dal chirurgo durante l’intervento, e poi ogni giorno si fa una piccolissima rotazione dei dadi dell’apparecchio, che allontana le due parti dell’osso. Il corpo, nel frattempo, crea nuovo osso nello spazio che si forma. È un percorso lento, faticoso, e sì, anche doloroso ma permette dagli anni sessanta di allungare una gamba più corta, raddrizzare un arto deformato, o ricostruire pezzi di osso mancanti in caso di fratture dovute ad incidenti, ad esempio. Io l’ho vissuto sulla mia pelle per ben sei volte e ti assicuro che dietro quella gabbia ci sono giorni duri, ma anche tanta forza che neanche pensavi di avere. Ai miei tempi, e parliamo della fine degli anni 80 in poi, Internet non era utilizzato come oggi ed i social non esistevano. Questo si traduceva nel fatto che durante gli infiniti mesi passati con l’Ilizarov, si sperimentava un profondo senso di solitudine e non c’era possibilità di confrontarsi con altre persone che vivevano la tua esperienza o l’avevano vissuta. L’unico momento di condivisione era il giorno del controllo, una volta al mese. Così oggi che “sono diventata grande” ho scelto di condividere la mia storia per metterla a disposizione di chi affronta un percorso col metodo Ilizarov e di chi più in generale non riesce a vedere la propria bellezza perchè condizionato dalle immagini che i media ci propinano tutti i giorni che generano un senso di bellezza disorto ed irraggiungibile. Credo quindi che sia importante raccontare storie vere per invertire la rotta e innescare un circolo virtuoso quello in cui la bellezza è autenticità. La tua scrittura è esplosiva, gioiosa, ironica eppure la tua storia personale è segnata da sfide fisiche importanti. Come hai trasformato il dolore in creatività? E come hai plasmato la tua identità di blogger e donna? Grazie per questa domanda, perché tocca un punto che mi è carissimo: la trasformazione. Perché no, non è stato sempre facile. Anzi, per un bel pezzo della mia vita mi sono sentita in bilico tra quello che “non funzionava” nel mio corpo e quello che la società si aspettava da me. Il dolore c’è stato, eccome. Fisico, certo – tra interventi, cicatrici e apparecchi ingombranti – ma anche emotivo. Quella sensazione di sentirsi fuori posto, diversa, sbagliata. Però a un certo punto ho smesso di lottare contro tutto questo. Ho iniziato a guardarlo in faccia, il dolore, e a chiedergli: “ok, vuoi restare? Allora siediti e raccontami una storia”. E lì ho capito una cosa potentissima: che potevo scrivere anche partendo da lì, e che proprio lì dentro c’era un’energia creativa che non avevo mai ascoltato fino in fondo. La scrittura per me è diventata uno spazio sicuro, ma anche uno specchio. Mi ha aiutata a ridere delle mie disavventure, a sdrammatizzare, a mettermi in gioco. È come se ad un certo punto avessi preso quel dolore e lo avessi vestito di ironia, di rosa malva e di parole leggere che però arrivano dritte al punto. Plasmare la mia identità di donna e blogger è stato un processo lento ma potente. Ho smesso di cercare di aderire a modelli irraggiungibili e ho iniziato a raccontare la realtà. La mia realtà. Quella con le cicatrici in bella vista, con le gambe asimmetriche, con la forza che nasce proprio da quelle crepe. E così è nato tutto: la pagina Instagram, il blog, la mia voce, il desiderio di usare la mia storia per dire a chi legge: “Guarda che puoi farcela anche tu. Nonostante tutto. O forse proprio grazie a tutto.” Ironia come arma L’ironia è stata il tuo scudo? Raccontaci un episodio in cui l’autoironia ti ha salvata. L’autoironia mi salva almeno una volta al giorno! Sono io la prima a definirmi una donna “in gamba” oppure a dire che “ho fatto il passo più lungo della gamba” e ancora “chi va lo zoppo impara a zoppicare” quando un amico mi fa notare che ha iniziato a fare qualcosa che faccio io. Non c’è niente di più bello di una persona che sa prendersi in giro e giocare con quelle che per la società sono imperfezioni, perché di fatto non lo sono: sono le nostre caratteristiche ed è grazie a queste che siamo unici. Maternità e disabilità Sei mamma di Alessio: com’è conciliare la disabilità con il ruolo genitoriale? Quale messaggio vorresti che tuo figlio imparasse dalla tua storia? Alessio oggi ha sedici anni ed è abituato a vedere la sua mamma camminare con qualche difficoltà e litigare con lo specchio perché accettarsi non significa che tutti i giorni ci sentiamo super cool eh! La maggiore preoccupazione è stata quando era piccolo perché quando avrebbe iniziato a camminare e a voler esplorare il mondo, come avrei potuto stare al suo passo? Non so se la Natura mette a posto tutto, ma Alessio era un bambino bravissimo e non c’è stata una sola volta in cui mi sia trovata in difficoltà perché scappava da qualche parte. É stato fin da subito autonomo e non abituato a camminare in braccio a me, anche perché lui è sempre stato un bambinone a dispetto della sua nascita prematura, ed io da giovane ero uno scricciolo: come potevo camminare con lui in braccio! Semmai adesso è il contrario, è lui che mi prende in braccio e mi prende in giro per la mia altezza. Vorrei che mio figlio imparasse a vedere nelle persone la bellezza dove si allontana dai classici standard estetici. Vorrei la trovasse nelle cose semplici ed autentiche. Vorrei anche che imparasse a prendersi cura delle persone che hanno delle difficoltà che lui non ha e che un giorno possa essere un uomo amorevole nei confronti della persona con cui deciderà di condividere il suo percorso. La scrittura come terapia I tuoi articoli accompagnati da illustrazioni esplosive sono un inno alla vita. Scrivere è per te una forma di terapia? Ci sono colori o simboli che usi per rappresentare il tuo percorso? Sebbene il mio colore guida sia il nero, la mia storia è piena di colore. Ogni colore che vedi sul mio sito e sui miei social, non è lì per caso. È una scelta che parla di me, della mia storia e del messaggio che voglio trasmettere a chiunque passi da lì. Beige chiaro: è il colore della pelle, delle cicatrici guarite, dei fogli di diario scritti a mano. È una tinta calda e avvolgente, come una chiacchierata intima tra amici. L’ho scelto perché voglio che il mio spazio sia così: morbido, accogliente, senza filtri. Rosso malva: è la forza delicata. Il colore delle guance dopo una risata, del battito accelerato quando mostro una parte fragile di me. È un rosso che non urla, ma che lascia il segno. Lo uso perché rappresenta la mia femminilità, la mia energia e il coraggio di mostrarmi senza maschere. Avorio chiarissimo: è il respiro profondo. Lo spazio vuoto che serve per far emergere le parole. È luce, è semplicità. È quel momento di silenzio dopo una frase importante, quando tutto si deposita dentro. È il mio modo di dirti: qui puoi fermarti, respirare, e sentirti libera. Ho scelto di raccontare la mia storia attraverso illustrazioni in stile chibi create con l’intelligenza artificiale, anche se mi sarebbe piaciuto saper disegnare, però non è che si può saper fare tutto. Il processo creativo è comunque un momento di grande concentrazione. Per creare ogni immagine cerco di entrare in connessione con me stessa e descrivere le emozioni che vorrei trasmettere con quell’illustrazione affinchè nonostante non sia creata da un pennello, sia calda ed avvolgente. La tua pagina Instagram di chiama @volevoessereunasirena e troviamo la frase Volevo essere una sirena anche sul tuo blog: cosa rappresenta per te? Quando nel 1989 uscì il cartone di Walt Disney “La Sirenetta“, rimasi subito affascinata. C’era qualcosa in quella creatura, Ariel, che mi risuonava. Lei, come me, avrebbe voluto un corpo perfetto perché pensava fossero due gambe meravigliose il simbolo della perfezione. Avrebbe rinunciato persino alla sua voce, pur di avere quello che le mancava. Io, al contrario, avevo due gambe, ma a tratti avrei preferito possedere una bellissima pinna! Forse perché, come Ariel, pensavo che “con il corpo giusto” sarei stata più felice. Ma con il tempo ho capito che la bellezza non è solo una questione di come ci vediamo, ma anche di come ci sentiamo nel nostro corpo, con le nostre imperfezioni. Ed io alla mia voce non solo non ci rinuncio, ma ho deciso attraverso le mie parole, di urlare quanto è importante raccontare storie vere. Quindi volevo essere una sirena ma non lo sono e questa è la mia storia. Consigli alle Donne Molte lettrici affrontano sfide invisibili. Qual è il consiglio che avresti voluto ricevere da giovane? E come trovare la forza per ‘non lasciare’? Accettare la propria immagine allo specchio e le nostre cicatrici visibili e non visibili è un percorso che può durare una vita intera. Un percorso minacciato da paure e fragilità fatto di passi avanti e ricadute. Se quando da adolescente quando portavo i jeans anche d’estate per coprire la mia gamba destra così diversa dall’altra e ancora prima quando da bambina, indossavo una scarpa diversa dall’altra per compensare la dismetria, mi avessero detto che un giorno avrei posato davanti ad una macchina fotografica con addosso solo un body, non ci avrei creduto. Eppure è successo. E questo è stato possibile perché col tempo ho capito che la bellezza è oltre la perfezione ed il mio corpo è bello con tutte le sue crepe come un vaso decorato da un maestro di kintsugi. Il mio corpo ne ha passate tante: le cicatrici di tutti gli interventi, così come le smagliature di una gravidanza … sono medaglie e non c’è ragione alcuna perché debbano essere nascoste. Avrei voluto saperlo da giovane che quello che stavo attraversando mi avrebbe un giorno dato questa consapevolezza e reso orgogliosa di essere ciò che sono. A tutte le donne che litigano con la loro immagine allo specchio e cicatrici visibili e non visibili, voglio dire che la bellezza è come un diamante, piena di sfaccettature e c’è ovunque. 5 cose che forse non sai su La Lauretta Ha una gatta di nome Margherita che si è tatuata sull’avambraccio sinistro È alta un metro e quarantacinque ed è per questo che tutti la chiamano La Lauretta Sogna di scrivere un libro Il suo personaggio preferito è Mercoledì Addams La frase che ripete a se stessa: “Pensa a ciò che hai e non a ciò che ti manca“. Grazie, Lauretta, per averci insegnato che le cicatrici possono diventare opere d’arte, e che la resilienza è un colore che si mescola alla palette della vita. Il tuo esempio è un faro per tutte noi.